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  • Corinna Maci
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CASO GEORGE FLOYD: PROCESSO AD UN PAESE

25 maggio 2020. Minneapolis, Minnesota. Immaginate di entrare in un negozio per prendere un pacchetto di sigarette. Il commesso che te le vende è convinto che tu le abbia pagate con delle banconote false e, al tuo rifiuto di restituire il pacchetto, chiama la polizia. All’arrivo della pattuglia inizia un diverbio molto acceso, la situazione degenera.

La tua faccia ora è a terra e il ginocchio di uno dei poliziotti inizia a premere sul tuo collo. Passano i minuti e ti senti mancare l’aria. “Non riesco a respirare” provi a dire con tutta la forza che ti rimane. 9 interminabili minuti e 29 secondi. Finalmente quel ginocchio si stacca dal tuo collo, ma sei entrato in coma e poche ore dopo verrai dichiarato morto in ospedale. Questa è stata la fine riservata a George Floyd, uomo afroamericano che era entrato in un negozio per comprare delle sigarette. La sua colpa non è stata la presunta banconota falsa. La sua colpa è quel marchio visibile che da quando è venuto al mondo porta come un fardello, il suo peccato originale, la pena che dovrà espiare per tutta la vita: è una persona di colore. A George Floyd non è stato concesso urlare, tanto il peso di quel ginocchio che lo ha sopraffatto, ma la sua morte ha dato vita al più grande movimento di massa della storia degli Stati Uniti: sono scesi in strada tra i 15 e i 26 milioni di persone in 2400 località in tutti gli Stati del Paese. L’urlo di un Paese che non può accettare quello che è successo.

  • Corinna Maci
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2021: i 70 anni dalla nascita della CECA. Quale lezione per l’Europa di oggi

Due Guerre Mondiali e milioni di morti: era necessario partire da qui, dalle macerie delle guerre per arrivare a quello che siamo oggi: uno spazio di pace, prosperità, solidarietà e stabilità. Per impedire il verificarsi di altre guerre fratricide si decise che le due più importanti risorse dell’industria bellica, il carbone e l’acciaio, sarebbero diventate per la prima volta nella storia strumenti di integrazione e quindi di pace. In che modo? Garantendo, per i Paesi che avessero sottoscritto il Trattato, la loro la libera circolazione e il libero accesso alle fonti di produzione. Oltre ad impedire un riarmo segreto a tutte le nazioni firmatarie, il Trattato – questo il nodo cruciale-  avrebbe posto fine alla storica rivalità tra Germania e Francia, in continua guerra tra loro, anche per le dispute territoriali per il controllo delle ricchezze minerarie della  Regione della Ruhr e della Saar.

L’impianto dei Trattati lo si deve al Ministro degli esteri francese Robert Schuman e Jean Monnet, che fu il maggior ispiratore della “Dichiarazione Schuman” del 9 maggio 1950: “L'unione delle nazioni esige l'eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l'azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania. A tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l'azione su un punto limitato ma decisivo”.

  • Corinna Maci
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Italia e Egitto. La sfida dei diritti fondamentali

Il 7 febbraio 2020 viene arrestato al Cairo Patrick Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna. 432 giorni dopo è ancora rinchiuso nel carcere di Tora a Sud del Cairo con l'accusa di "incitamento alla protesta" e "istigazione a crimini terroristici". Ha 29 anni e rischia 25 anni di reclusione. Due giorni fa il Senato ha approvato un ordine del giorno per attribuirgli la cittadinanza italiana. Oltre alla cittadinanza il governo italiano si impegna a sollecitare le autorità egiziane per la scarcerazione; a monitorare le udienze e le condizioni del ragazzo con la presenza di diplomatici italiani; ad attivarsi a livello europeo per la tutela dei diritti umani.

Questa vicenda rievoca un altro doloroso capitolo, peraltro non concluso, nelle vicende con l’Egitto; tra il gennaio e il febbraio del 2016 venne torturato e ucciso – per mano dei servizi segreti egiziani - un altro studente, il ricercatore italiano Giulio Regeni che si trovava al Cairo per una tesi di dottorato sulle attività sindacali dei venditori ambulanti egiziani. Le vicende di questi due ragazzi rappresentano un tassello di quel variegato mosaico che è l’Egitto, la cui guida dal 2013 è nelle mani del Generale Abdel Fattah al-Sisi; militare che non ha mai combattuto un giorno, ex sostenitore dei Fratelli musulmani diventato in seguito il loro peggior nemico; sedicente alleato dell’Occidente ma disposto ad insabbiare gli omicidi di occidentali. Tante contraddizioni che sembrano caratterizzare anche il Paese che guida.  

I numeri sono allarmanti: l’Egitto è il terzo paese al mondo per numero di giornalisti incarcerati; sono sessantamila i detenuti politici; dal 2014 sono scomparsi 1.058, oppositori, e strumenti come la tortura e i rapimenti sono all’ordine del

  • Corinna Maci
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Draghi in Libia: quale ruolo per l’Italia?

Martedì 6 aprile il Primo Ministro italiano Mario Draghi  si è recato a Tripoli per la sua prima visita di Stato all’estero.  

La visita del Premier arriva in un momento di estrema fragilità ma anche di grandi speranze per il nuovo governo di transizione guidato dal premier libico Abdul Hamid Dbeibah, governo che dovrebbe portare le diverse anime libiche a nuove elezioni presidenziali e legislative il 24 dicembre 2021. Il nuovo governo libico, lo ricordiamo, si insedia dopo 10 anni di conflitto – dalla caduta di Gheddafi nel 2011 – durante i quali il Paese non è mai riuscito a realizzare una vera transizione democratica. Il Premier italiano ha ribadito durante la conferenza stampa congiunta che: “Il momento è unico per ricostruire quella che è stata un’antica amicizia”.

Ci sono quindi le basi per una partnership che guarda al futuro ma che ha solide radici nel passato dei due Paesi.

I nodi da sciogliere sono diversi: il consolidamento politico ed istituzionale; la presenza di attori stranieri che ha avuto un ruolo determinante durante la guerra civile; l’approvvigionamento energetico e la distribuzione dei suoi proventi; la sfida dell’immigrazione; il rilancio dell’economia. Un programma ampio ed ambizioso. La presenza delle potenze straniere nello scacchiere libico, in particolar modo di Russia e Turchia, si è verificato in seguito all’appoggio alle due amministrazioni rivali, quella di Tobruk – guidata da Aguila Saleh - e quella del GNA , il Governo di Unità nazionale, con a capo Al- Sarraj.

A livello militare le milizie legate al GNA si sono fronteggiate con le milizie del generale libico Haftar (Esercito nazionale libico). Mentre il GNA

  • Leonilde Gambetti
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VIOLENZA DI GENERE, COMBATTIAMOLA OGNI GIORNO

Ne parliamo oggi che il 25 novembre è già passato, e l'8 marzo é ancora lontano dal venire.

Oggi che le panchine dipinte di rosso, come simbolo contro la violenza sulle donne, hanno già cominciato a scolorirsi nei giardini e nelle bacheche dei social network e le mimose gialle non sono ancora fiorite. Ne parliamo oggi e non a caso, ma per provare a tenere fede a quell'intenzione, sempre ostentata e mai mantenuta, di parlarne tutti i giorni. Non solo il 25 novembre.

 

Non solo l'8 marzo. Perché le donne vengono ammazzate ogni giorno. Le parole della Ministra per le pari opportunità, Elena Bonetti, ci fanno ben sperare: bisogna mettere in campo un'azione coordinata affinché le donne non siano lasciate sole. Lavorare, quindi sulle "tre P", prevenire, proteggere, perseguire. Bisogna lavorare nelle scuole su un percorso di affettività, rispetto, educazione civica; bisogna mettere in atto percorsi dedicati alle donne nell'ambito dei commissariati di polizia e caserme dei carabinieri, dei tribunali, dei pronto soccorso, per un centro unico che garantisca l'anonimato. La lotta contro la violenza sulle donne deve essere quotidiana, costante, perseverante, efficace.

Lo sanno bene i Centri Anti Violenza che ogni giorno ricevono chiamate, richieste di aiuto, grida di dolore. Ne parliamo oggi per dire che i simboli sono importanti. Va bene la panchina dipinta di rosso, il baffo rosso sul viso, i flash mob con le scarpe rosse. I simboli sono importanti, sì, ma non sono sufficienti. Poi ci

  • Corinna Maci
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Il NEMICO NON E’ ALLE PORTE

 

Il progetto europeo, da sempre oggetto di attacchi esterni, rischia una delegittimazione interna sul terreno di un principio fondamentale delle democrazie occidentali: lo stato di diritto. È un capitolo nevralgico quello che ci ha offerto l’Europa in questi giorni, con il veto di Ungheria e Polonia al prossimo bilancio europeo e al conseguente accesso ai fondi del Next Generation Eu (o Recovery Fund).

 

I due Paesi vogliono imporre che non si subordini l’erogazione dei fondi al rispetto dello stato di diritto. Potrebbe sembrare surreale ad un cittadino italiano, francese o tedesco perché questo principio è consolidato. Ma in questi giorni abbiamo avuto la rappresentazione plastica di come per alcuni Paesi un principio di tale portata non solo non è scontato ma viene persino rifiutato.

L’Ungheria e la Polonia con il loro veto stanno facendo pesare la loro posizione perché la decisione deve essere presa all’unanimità. Le diplomazie europee si stanno già muovendo per adottare un compromesso che non faccia apparire nessuna delle due parti in una posizione di arretramento rispetto a quella iniziale. Attendendo l’esito di questo ennesimo braccio di ferro in seno all’Unione, che segue quello poco edificante avvenuto tra Paesi rigoristi e mediterranei per il Recovery Fund, sarebbe necessaria una riflessione che vada oltre gli aspetti economici e che molti analisti hanno sottolineato in questi

  • Corinna Maci
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JOE BIDEN, QUANDO ESSERE MODERATI PUO’ SALVARE UNA NAZIONE

 

Sono state settimane convulse; i sondaggisti hanno prima annunciato una vittoria schiacciante dei democratici, poi il timore della sconfitta è montato ed infine si è arrivati al lento recupero. Biden, il Presidente della riunificazione, come è già stato definito, non irrompe nelle scene con una forza travolgente come aveva fatto l’outsider Obama nel 2009; non lo può fare un uomo che tra qualche giorno compirà 78 anni ed è stato eletto per la prima volta a soli 30 anni come Senatore.

Uomo dell’establishment, profondo conoscitore dei meccanismi amministrativi e politici che governano il sistema politico americano, incarna sicuramente quella perseveranza e quella tenacia che unita alla sua grande fede – è il secondo Presidente cattolico dopo J.F Kennedy- lo rendono persona credibile nel volere ricucire le contrapposizioni che il suo predecessore ha esasperato. “L ‘oppositore non deve essere un nemico, siamo tutti americani”, pronuncia nel suo primo discorso alla nazione come Presidente.

Queste parole, in questo momento storico, non fanno parte di quell’armamentario retorico a cui l’America ci ha abituato; è innegabile infatti che l’ondata blu è venuta meno e le profonde fratture che caratterizzano la società americana sono molto forti e sempre più evidenti. Non si deve dimenticare che Trump rispetto al 2016

  • Editorial Board INP
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Il terrorismo e il paradosso della società aperta

In questi giorni il “nemico” - se si vuole utilizzare un termine mutuato dal linguaggio bellico - delle società occidentali e non solo , ha assunto le forme di un virus potenzialmente letale e in grado di mettere in ginocchio l’economia e il benessere delle nostre città.

Eppure, fino a qualche tempo fa, incombe(va) una minaccia altrettanto pericolosa e per certi versi ancora più temuta: il terrorismo.

Messi in comparazione, il covid e il terrorismo hanno un elemento in comune; entrambi li avvertiamo come un male che proviene dall’esterno e che si è insediato pericolosamente nelle nostre vite, minando il nostro benessere fisico, sociale ed economico. Fortunatamente ogni male ha il suo antidoto. Se per il covid siamo in attesa di un vaccino, molto più complesso è l’antidoto al terrorismo. Le ultime settimane quello che sta accadendo in Francia deve fare riflettere. Qualche giorno fa un ventunenne di origine tunisine, Brahim Aoussaoui, entra nella cattedrale di Nizza e uccide tre persone al grido di Allah Akbar; questo episodio segue un'altra uccisione, quella del Professore Samuel Paty, decapitato per aver mostrato in classe alcune vignette del periodico satirico Charlie Hebdo , quelle stesse vignette che costarono la vita nel 2015 a 12 persone.