25 maggio 2020. Minneapolis, Minnesota. Immaginate di entrare in un negozio per prendere un pacchetto di sigarette. Il commesso che te le vende è convinto che tu le abbia pagate con delle banconote false e, al tuo rifiuto di restituire il pacchetto, chiama la polizia. All’arrivo della pattuglia inizia un diverbio molto acceso, la situazione degenera.
La tua faccia ora è a terra e il ginocchio di uno dei poliziotti inizia a premere sul tuo collo. Passano i minuti e ti senti mancare l’aria. “Non riesco a respirare” provi a dire con tutta la forza che ti rimane. 9 interminabili minuti e 29 secondi. Finalmente quel ginocchio si stacca dal tuo collo, ma sei entrato in coma e poche ore dopo verrai dichiarato morto in ospedale. Questa è stata la fine riservata a George Floyd, uomo afroamericano che era entrato in un negozio per comprare delle sigarette. La sua colpa non è stata la presunta banconota falsa. La sua colpa è quel marchio visibile che da quando è venuto al mondo porta come un fardello, il suo peccato originale, la pena che dovrà espiare per tutta la vita: è una persona di colore. A George Floyd non è stato concesso urlare, tanto il peso di quel ginocchio che lo ha sopraffatto, ma la sua morte ha dato vita al più grande movimento di massa della storia degli Stati Uniti: sono scesi in strada tra i 15 e i 26 milioni di persone in 2400 località in tutti gli Stati del Paese. L’urlo di un Paese che non può accettare quello che è successo.